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Un canzoniere e un "poemetto di monologhi": ecco il bifrontismo messo in scena da questi "Canti", terzo capitolo, dopo "Il boomerang non torna" (2003) e "Orizzonti della clessidra distesa" (2005), di una tetralogia degli "oggetti anomali". In fondo qui si descrive il paradosso di chi allo specchio scorge di sé, accanto alla figura riflessa che si attende di trovare, una figura discordante che non gli appartiene. Se a uno sguardo iniziale emergono due mondi, si precisano poi due volti dello stesso mondo. Dunque non fronte e retro, diritto e rovescio che si escludono a vicenda (vedere l'uno significa non vedere l'altro) ma due immagini accostate, che pur stridendo nella loro vicinanza di estranee sono di fatto allacciate. Perché il mondo è uno. Cosi, in una prima versione il canto tesse un dialogo-desiderio di ascesa e unione mistica con l'Altro. Protagonista una voce che attratta dalla fisicità delle cose aspira tuttavia a un Oltre: il giardino felice vagheggiato con l'Altro è il surrogato di uno Spazio e di un Tempo finalmente pacificati. A latere, in una specularità di segno opposto, il canto sale come grido, invettiva, umiliazione (infetta o patita) di voci disperse: una pluralità che non si fa coro, che abita una subterritorialità frantumata e alla deriva, aspra e fatale, squarciata dalla violenza. La voce che si modula verso l'"alto", nella specchio della propria eco coglie infine altre voci, di forza contraria ma innegabilmente pili reali.